giovedì 13 agosto 2009

Sky is the limit

Ieri sono inaspettatamente riuscito a vedere "Notorious", il film basato sulla vita del noto rapper di Brooklyn, morto nel '97 all'età di 24 anni. Prima di parlare di questo film però, una nota positiva: avevo sentito che, in virtù di un contratto stipulato con i distributori del film, la proiezione del film sarebbe stata preceduta dal video del singolo dei Club Dogo, "Sgrilla". Bene, così non è avvenuto. Ora passiamo al film. Che è bello, eh. Ci si aspettava una merda, si era detto che era una merda, ma non è una merda. E smettete di fare i cazzo di passatisti nostalgici, che ne voi ne io c'eravamo ai tempi di Notorious. Che nel post verrà indicato con i seguenti nomi: Big, Biggie Smalls (anche solo Biggie), Big Poppa, B.I.G., Business Instead of Game. No, giusto per dovere di cronaca. Dicevamo, il film. Il film è bello perchè ci prova, ad essere un film veritiero (almeno all'inizio). Solo che non ci riesce, un po' per l'effettiva mancanza di notizie sulla vita di Biggie, che prima di essere un rapper, voglio dire, era uno spacciatore di crack, mica teneva i libri contabili. Un po' non ci riesce per l'ingombrante Puff Daddy alla produzione del film. Ora, per chi non sapesse effettivamente un cazzo di Notorious B.I.G., Sean Combs detto Puff Daddy è stato il produttore che ha lanciato Biggie, facendogli ottenere il contratto con la Uptown Records per poi annoverarlo tra le stelle della sua Bad-Boy Records. Comunque sia, Puff Daddy è stato uno dei maggiori promotori del progetto di realizzare un film sullo scomparso rapper newyorkese, e la sua impronta è palese. In pratica, lui ne esce come un mormone. Ora, io non pretendo che Puff Daddy sia un completo figlio di puttana eccetera, in effetti non ho nemmeno i mezzi per dire che lo fosse, figurarsi pretendere che venga così raffigurato in un film di cui è produttore. Però, voglio dire, era sempre un gangster. Un gangster in un mondo di gangster, ma un gangster. Invece no, lui è Don Puffy, che elargisce prediche a destra e a manca, è sempre il primo a voler fermare gli altri quando le cose diventano pericolose perchè oh, non è perchè siamo negri di Brooklyn che non dobbiamo usare il cervello. Credete a me, la cosa fa parecchio ridere. Altra cosa non gestita benissimo (ce lo si poteva tranquillamente aspettare) è il rapporto con Tupac. L'attore che lo interpreta m'è piaciuto, è perfino somigliante (nei limiti del possibile), ma 2Pac ne esce troppo come una macchietta, come un esaltato. Per lo meno, una scena come quella della sparatoria a Pac in quel di New York meritava più cura, anche per l'importanza che ha rivestito nella faida tra East e West Coast. Un altro personaggio trattato di merda è stato Lil' Kim, che per quanto sarà stata anche una scoppiata, qui c'è solo quando lui è preso male, così la tratta da puttana (litteraly). Invece la madre di Notorious, anch'essa collaboratrice stretta di Puffy nel progetto del film, ha un ruolo di prim'ordine e un po' scassa il cazzo, ma convince. Per il resto, anche sulla scelta delle canzoni ci sarebbe un po' da dire, ma alla fine era comunque molto gradevole. Per farla breve, hanno scelto due o tre singoli e poi tutti pezzi più underground.
Insomma, diciamocelo, era un film difficilissimo da fare, per tutte le menate che comportava. Il prodotto che ne viene fuori è assolutamente godibile, un film guardabile anche chi della storia non sa davvero niente, che regala perle di negritudine nei freestyle per la strada o nello studio e che innegabilmente diverte. Poco altro. L'insegnamento lo conoscete, il cielo è il limite...

mercoledì 17 giugno 2009

Please, go to Santa, go to Santa, go go go / Celebrate the irony / This is no Bridget Jones

Torno a questo blog dopo diversi mesi in cui ero forse un po' a corto di idee, oppure semplicemente di voglia. E infatti ora a spingermi a scrivere è la voglia di scrivere, ma non la voglia di scrivere di qualcosa in particolare. Questo qualcosa, per una volta, sarà un semplice pretesto. Si, ora comincio.
Voglio parlare del finora unico disco degli Wombats, "A Guide to Love, Loss & Desperation", una delle sorprese più gradite del 2007. Questo terzetto, per due parti inglese e per una norvegese, riesce magnificamente ad amalgamare quanto di meglio fatto dalla scena indie d'Oltremanica, senza però cadere in banali scopiazzature mirate ad un facile successo. Intendiamoci, gli Wombats il loro successo l'hanno avuto, eccome! Ma questo non significa che questi tre giovini usciti dall'accademia di sua maestà Paul McCartney siano esattamente gli ultimi arrivati. No no, neanche un po'. Ci Regalano un interessante sguardo sul revival della new wave che in questi anni sta attraversando la scena indie. Ma soprattutto riescono ad uscire con un prodotto così coinvolgente, ballabile e semplicemente pop, che ci risulta impossibile non adorarli. Non capita di rado, anche a distanza di mesi dall'ultimo ascolto, di canticchiare una delle canzoni contenute in quest'album. Semplicemente perchè i singoli funzionano, e le canzoni che non lo sono diventate, avrebbero tranquillamente potuto. Ma ritengo banale accusare gli Wombats di faciloneria, dato che questo disco, per quanto sicuramente non molto profondo o riflessivo, è fresco, suona nuovo nonostante tutti i suoi palesi richiami ad un passato molto recente. Insomma un album che divide (lo ha già fatto), che va apprezzato a parere mio per la semplicità, la musicalità così marcatamente "english" e, come già detto, la facile ballabilità. Menzione particolare la merita necessariamente il singolo che forse più di altri ha spopolato, ovvero "Let's Dance to Joy Division", ma senza dimenticare altre canzoni di sicuro impatto come "Party In a Forest", "Kill The Director" o "Backfire At The Disco". Ecco, se vado avanti finisce che elenco tutto il disco.

domenica 1 febbraio 2009

Don't that picture look dusty?

Scrivo a caldo questo post sull'Assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, perchè ne sento un estremo bisogno. Un po' per il semplice fatto che, lasciando passare troppo tempo fra la visione e il post, mi si annebbia la mente e dimentico molti spunti magari interessanti. Un po' perchè sento il bisogno di comunicare al mondo quanto cazzo è bello questo film. Perchè non credo di commettere un'esagerazione a definirlo un capolavoro. Un capolavoro sia da un lato psicologico, per la resa incredibile di un personaggio spinoso come Jesse James e per l'attenta analisi del suo rapporto con quello che sarebbe poi diventato il suo assassino, Robert Ford. Ma capolavoro anche per il semplice impatto visivo che questo film esercita sulle nostre pupille. Perchè con Jesse James il western ritorna in qualche modo alle origini, recuperando l'amore per lo spettacolo che le sconfinate praterie americane sanno regalare. Ma una operazione del genere non sa neanche un po' di retrò. Anzi riscrive completamente il genere, imparando dagli Spietati e impostando un nuovo modello, difficilmente replicabile anche per la difficoltà e il coraggio necessario ad intraprendere un simile progetto. Ma la fotografia non la fa da padrona, come potreste pensare. È solo il superbo fondale di questo dramma che si consuma tra il bandito più famoso e inafferrabile che la storia ci abbia consegnato, e il suo assassino, rispettivamente interpretati da un Brad Pitt e un Casey Affleck da urlo. Questo Jesse James è consapevole dello status di leggenda che ormai aleggia intorno alla sua figura, se ne compiace ma non si crogiola, temendo sempre il voltafaccia di qualcuno, attirato dalle taglie sempre più alte messe sopra la sua testa. E in questo rapporto di continua sfiducia tra lui e Ford, che idolatra James dall'età di dodic'anni, arriva il momento in cui vanno riposte le diffidenze. Proprio quel momento sarà fatale al bandito.
Le scene da ricordare sarebbero molteplici, per esempio potrei citare quando James si lava nella tinozza e si accorge che dietro c'è Ford, e dopo uno scambio di battute gli dice: "Vuoi essere come me, o vuoi essere me?". Eppoi, il quarto d'ora finale è roba che racconteremo ai nipoti. Hai detto poco.

mercoledì 7 gennaio 2009

It started with a chair. It ended with a chair

Questo post parla di un film che mi è piaciuto in maniera esagerata. Questo post è scritto da una persona che ha apprezzato talmente tanto il film che, pur riconoscendone qualche difetto, non ne vuole parlare per non scalfire il ricordo ancora nitido della sì bella pellicola. Il film si chiama Juno, diretto da Jason Reitman ed interpretato dalla (ormai non più tanto) sorprendente Ellen Page. La storia è bella, ben scritta, tiene il ritmo, non annoia, coinvolge e nell'ora e mezza giusta di film non ci viene mai da guardare l'orologio. Diverte senza cadere nel patetico, ed ha i suoi momenti di romanticismo e commozione evitando però di impantanarsi nel melenso/melodrammatico. È un film costruito bene e diretto in maniera ottima, recitato ancor meglio. La nostra Juno è schietta, perspicace, spassosa, oltre che ovviamente alle prese con gli scleri della gravidanza. Il fatto che le piacciano gli Stooges non fa che amplificare la nostra simpatia per lei. Perchè gli Stooges ci piacciono. Cazzo se ci piacciono. Dicevamo, Juno. Se n'è detto e scritto veramente tanto, è diventato un caso in America, ed è poi arrivato qua in Italia poco dopo gli Academy, dove era candidato per tre premi (inutile dire che non ne ha vinto nessuno, sconfitto dalla macchina da Oscar dei Coen). È una commedia adolescenziale americana, ma così detto sembra la solita cazzonata. No. Non è la solita cazzonata. Non è American Pie e non è Superbad. Perchè pur essendo una commedia adolescenziale americana, non ricade nella comicità demenziale (che però non è assolutamente un male secondo me) in cui di solito è inquadrato il genere. È un film coraggioso. Reitman ha appreso al meglio la lezione dei predecessori tra i quali potremmo elencare Little Miss Sunshine, tirandone fuori, se vogliamo, i tratti più superficiali, per costruire una storia che è piccola, che è marginale, ma che è vera. È realista nella sua schiettezza. Il risultato è un delizioso agglomerato di slang improbabile (nemmeno troppo sputtanato dal doppiaggio italiano), battute grottesche, momenti di spasso alternati a momenti di riflessione, magari presa non troppo duramente, ma riguardo argomenti sicuramente delicati, mai facili da trattare, come una maternità precoce. Ok, detto così sembra chissà che. Si può stare qua a discuterne, delle tematiche, del mondo in cui sono trattate, eccetera, ma non mi va proprio. Perchè stare qui a spulciare i dettagli di un film che ho visto, e che m'è piaciuto di brutto, mi pare stupido. Se qualcuno imputa delle critiche a Juno, io sono ben disposto ad ascoltarle. Magari anche a condividerle. Ma nonostante tutto ciò, continuerò ad apprezzare questo film. Perchè è bello. Bi e doppia elle o. Un film piùcchemmai per la mia età. Un film che resta. Un film con Michael Cera, l'Evan di Superbad. Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.

domenica 30 novembre 2008

Dear Science,

Tutti pazzi per i TV On The Radio. Questi cinque svalvionati newyorchesi, cocchi della scena indie della Grande Mela, hanno fatto ancora centro. Dopo aver messo d'accordo critica e pubblico con un disco della madonna come "Return To Cookie Mountain", riescono a ripetersi con "Dear Science", che sta ottenendo recensioni positivissime da tutti. Ma veniamo ai fatti: Dear Science segna una vera svolta nel sound dei TVOTR (TV On The Radio), perchè da atmosfere cupe e centinaia di chitarre mixate, siamo passati a un disco più trascinante, con maggiore rilevanza alle parti cantate e un miscuglio di stili fra i più disparati, dall'indie più classico alla ballata, dal soul al rock, con alcuni momenti che sconfinano perfino nell'hip-hop. Ok. Stop. Detto così sembra che i TVOTR abbiano fatto un disco commerciale o comunque una svolta decisamente in negativo. Niente di più sbagliato. Dear Science è un disco pazzesco, dico sul serio. Perchè pur avendo i suoi momenti di sperimentazione e quindi di difficile digeribilità, scorre via senza intoppi nelle sue undici tracce. Come già detto, troviamo qualsiasi genere possibile e immaginabile, ma questo inusuale agglomerato non risulta pesante, non è mai forzato, anzi conferisce armonia al disco, pur nella sua varietà.
In tanti dischi mi capita di giudicare le tracce iniziali come le più belle, sarà per pigrizia, sarà perchè tante volte è davvero così. In Dear Science il tutto è abbastanza omogeneo, ma mi è addirittura venuto da pensare che si vada in crescendo, che le canzoni più belle siano cioè le ultime in ordine di tracklist. Mi risulta difficile scegliere un solo pezzo, perchè sono tutti veramente uno più bello dell'altro: "Halfway Home" con quell'irresistibile papapapapapa introduttivo, "Red Dress" e "Dancing Choose" che rappresentano le parti più marcatamente "black" del disco, "Family Tree" con un riuscitissimo tocco soul,"DLZ" dove rock, elettronica e hip-hop si amalgamano in modo perfetto, e infine quella che credo potrei indicare come mia preferita, ovvero "Shout Me Out", un viaggio che parte con un tono tutto tranquillone per arrivare fino ad uno sfrenato break-beat, il tutto condito da chitarre a mille. In conclusione, questo disco è uno dei migliori usciti ultimamente, da avere assolutamente, da ascoltare e riascoltare fino a consumarlo, perchè è un prodotto che vale, e anche perchè forse necessita di qualche ascolto per essere capito appieno.

sabato 22 novembre 2008

They came from nothing to change everything

Correva l'anno 1975, e in un quartiere di Los Angeles, degradato al punto da essere denominato Dogtown, erano molti i surfisti che si facevano notare per la destrezza nel cavalcare quei mostri di onde in un ambiente poi tutt'altro che confortevole. Tra questi, alcuni finirono per abbandonare il surf e dedicarsi ad un'altra disciplina di cui sarebbero diventati innovatori e maestri: lo skateboarding. Per la prima volta con loro si iniziarono ad applicare alle tavole da skateboard ruote di uretano, anzichè di legno, e vi lascio immaginare quanta mobilità abbiano 4 ruote di legno, cioè praticamente nulla. Potete poi immaginarvi che impatto potesse avere nel 1975 quella che, a modo suo, fu una vera e propria rivoluzione: lo skate divenne per la prima volta veramente popolare negli Stati Uniti, con una diffusione del fenomeno senza precendenti. Alla base di questo vi fu anche la siccità che colpì la west coast statunitense a metà degli anni 70, che come conseguenza portò tutti i proprietari di piscine, pubbliche e ancor più private, a chiudere i rubinetti. Con tutte queste piscine vuote concentrate nella zona di Beverly Hills, cosa volete che facciano dei ragazzi scatenati a bordo di tavole da skate? Ecco allora che ha il via la celebra "moda", se così vogliamo definirla, di organizzare addirittura grossi party attorno a queste piscine in qui di esibivano degli ancora primitivi skater. Ma con il passare del tempo, la cosa non fu più possibile. La disciplina, appena uscita dal guscio, era ancora in fase di piena evoluzione, e i suoi tre più celebri praticanti scelsero strade ben diverse, chi scegliendo la sana competizione, chi i promettenti sponsor, chi si stufò di un business che già cominciava a diventare marcio, salvo poi riunirsi per una causa comune, ovvero l'aiuto del loro amico nonchè più grande sostenitore. Questi pionieri dello skateboard, che altro non sono se non i ragazzi surfisti di cui parlavo all'inizio, erano Stacy Peralta, Tony Alva e Jay Adams, i 3 più grandi Z-Boys del team Zephyr Skateboard (il primo in tutta America a spingere quello che sarebbe poi diventato un fenomeno di culto mondiale), i 3 veri signori di Dogtown. Chiunque, oggi come 10 anni fa, prenda o abbia preso in mano una tavola, deve ringraziare quei 3 ragazzi disgraziati che, inconsapevolmente, venendo dal nulla, cambiarono tutto.

lunedì 10 novembre 2008

Dreamin' a space odyssey

Sabato scorso era festa, ne ho approfittato per andare al cinema (poi l'ho pagata al lunedì con l'interrogazione di biologia...doh!). Del resto, era un po' che dovevo vedere Wall-E, ero stanco di aspettare. Con la pubblicità che gli hanno fatto mi sembra assurdo spiegare di cosa parlo, ma per chi si fosse sintonizzato solo ora con le frequenze del pianeta Terra: Wall-E è il nuovo film della Disney Pixar, l'unica che anno dopo anno riesce sempre a mantenere uno standard altissimo tirando fuori un film capolavoro dopo l'altro. Quindi funziona così: tu vai al cinema, paghi il biglietto e sei sicuro che per una volta sono soldi spesi bene, ti siedi nella tua poltrona piena di pop-corn dello spettacolo prima e pensi, anzi sei sicuro, che assisterai alla proiezione di un capolavoro. Ma, nonostante questa certezza, dopo l'ora e mezza abbondante di film (chiamatelo cartone se proprio dovete mortificarlo così...) vi alzate, e pensate che questo film ha soddisfatto appieno le vostre aspettative. Non succede spesso. Personalmente, se devo ricordare un altro film che mi ha fatto pensare la stessa cosa, devo tornare indietro di un anno, e indovina un po' di che film parlo? Ma di Ratatouille, è ovvio. Cos'è Ratatouille? Il film della Pixar precedente a Wall-E. Cazzo è innegabile: questi signori non sbagliano un colpo. Wall-E, Ratatouille, Cars, Gli Incredibili, La Ricerca di Nemo, e potrei continuare chissà quanto fino ad arrivare al mitico Toy Story. Ma io ora scrivo per parlarvi di Wall-E. Dicevo che è un capolavoro. Non c'è niente fuori posto. Questo robottino tuttofare è fortissimo, fa ridere i bambinetti urlanti di fianco a me, fa ridere i loro genitori, pensate un po' fa ridere anche me. I dialoghi sono ridotti allo strettamente necessario, scelta che magari penalizza il bambinesco pubblico a cui solitamente sono maggiormente indirizzati i film Disney (tradotto in parole povere, i bambini ridono ma dopo mezz'ora di film dicono alla mamma che ne hanno piene le palle e voglio uscire). La Terra di qualche centinaio di anni nel futuro prima, e un'astronave di terrestri obesi poi, fa da sfondo alla romantica storia fra Wall-E e EVE, il cui design ricorda molto quello dell'Apple iPod e vuole quindi essere un omaggio a Steve Jobs, CEO della Apple nonchè fondatore ed ex-proprietario della Pixar. Le citazioni di 2001: Odissea Nello Spazio non si contano, e sono una più geniale dell'altra: se dovessi scegliere quella che ho apprezzato di più, direi quella in cui l'obeso comandante, sulle note del tema più celebre del film di Kubrick, si alza in piedi. Come ci sono i momenti di così alta goduria cinematografica, ci sono anche i momenti di umorismo più semplicistico, comunque molto godibili e mai banali. Ma, come tutte le pellicole di casa Pixar, si differenzia da tutti gli altri film d'animazione anche per la presenza di un importante messaggio. Il film tratta infatti la spinosa tematica dell'inquinamento, del riscaldamento globale e delle fonti d'energia rinnovabili, mostrandoci una Terra ricoperta di rifiuti da cui gli umani sono stati costretti ad emigrare. Il riscatto dell'umanità avviene con la presa coscienza da parte degli uomini del danno fatto alla natura, ovvero l'immenso accumulo di rifiuti accompagnato dall'incapacità di smaltirli. Potrei davvero stare qua per ore a parlarvi di Wall-E, perchè è un film che mi è piaciuto da morire, che spero di rivedere presto perchè mi ha veramente colpito. Ne consiglio la visione a tutti, in particolar modo alle persone scettiche verso i "cartoni per bambini" che in realtà, come dimostrato da questo robot spazzino e dalle sue peripezie, possono significare molto di più di una marea di porcate cinematografiche messe insieme. Altra menzione particolare va alla colonna sonora, che contribuisce in maniera massiccia alla buona riuscita del film: la scelta di "Hello Dolly!" all'inizio mi appariva fuori luogo, ma proseguendo con il film si capisce quanto una scelta a prima vista così insensata e magari deleteria possa rivelarsi invece...semplicemente bellissima! Dai...quando mai vi capita di pigliarvi così bene per un film? Ascoltatemi e cercate di non perdervelo. La seduta è tolta. Beeeeella!